Il nostro recente Capitolo non ha risolto tutte le problematiche della vita consacrata e nemmeno quelle della Congregazione. I Cavanis, come ogni cristiano, devono camminare nella fede, sempre intrecciata con l’oscurità, la domanda, il dubbio, la fatica, come hanno camminato i nostri Padri.
Abramo, “padre nella fede”, sale al monte Moria, accanto ha Isacco, il figlio da sacrificare. Per tre giorni Dio non parla più, scompare, allora padre e figlio parlano tra loro, “padre mio”, “figlio mio”. Nella fede c’è un elemento paradossale. L’itinerario del credere può comprendere oltre il silenzio di Dio anche la rivolta, come in Giobbe che accosta Dio a un arciere crudele che scaglia frecce contro di lui.
Credere è un rischio, un’esperienza esistenziale, una scelta radicale. Ostentare simboli e tradizioni della vita consacrata nelle celebrazioni e commemorazioni non fa di nessuno religioso un credente. Sono “segni” che di per sé non rappresentano l’autenticità del credere. Cristo condanna chi allunga i filattèri, le pergamene con i versetti della Torah, e non sopporta le ipocrisie e le “feste” per auto promuoversi. Non ci si salva con le manifestazioni esteriori, ma con una ritrovata e profonda adesione di fede alle scelte spirituali, morali ed esistenziali. Non è il gesto rituale della professione religiosa che salva, spesso è solo un rito che, oggi, con estrema facilità si può tradire.
La vita consacrata dovrebbe essere una spina nel fianco della società. Non avere paura di andare controcorrente, “non dobbiamo inseguire il consenso, né il dissenso fine a se stesso; dobbiamo inseguire il senso”.
Ma il credere profondo é in crisi. Come religiosi non possiamo pretendere di essere maggioranza, di gestire la società come è avvenuto in passato. Possiamo solo cercare di essere una testimonianza viva di Cristo. Con la nostra vita consacrata possiamo e dobbiamo dire il contrario di ciò che è dominante, come ha fatto Gesù.
La scelta di Cristo e la scelta della Chiesa e della vita consacrata, non é adeguarsi al contesto, ma essere forza di provocazione, che grida le verità ultime — la vita e la morte, il bene e il male — ma anche le verità penultime: solidarietà, giustizia, etica sessuale, lotta al crimine, difesa sempre dei più deboli.
Il Cristianesimo non è una religione solo trascendente, è una religione incarnata. Ha una dimensione sociale e “politica”, nel senso originario del termine. Dio trascendente condivide la nostra condizione umana in Cristo consolando l’uomo, condivide quello che ci rende umani: il dolore e la morte.
Il cammino di fede implica formazione, riflessione, condivisione, comprensione, fino al “…mostraci dopo questo esilio, Gesù…”. L’esilio non è una esperienza volontaria, è qualcosa di forzato che si impone a una persona o a un popolo. L’esilio è un forzato dislocamento da una terra, dalle proprie tradizioni e dai propri valori.
Oggi, bisogna imparare nuovamente a vivere in esilio e a non lasciarsi sedurre dalla tentazione perché non abbiamo “qui una patria permanente”, siamo nel mondo ma non di questo mondo sulla strada dello smarrimento di Dio. Spazi e tempi considerati fino ad ora sacri sembrano non significare più niente a riguardo di Dio.
Non serve più fornire una tesi cui aderire e imporre un rituale. Allora, quale vita consacrata, quale preghiera, quale culto e liturgia in esilio, “come possiamo cantare i canti di Sion in terra straniera?”
Non è solo questa l’unica domanda che affiora. Non c’è possibilità di ritorno al passato, bisogna andare avanti e trovare un linguaggio nuovo e coerente per trasmettere l’esperienza di Dio in questo esilio spirituale e culturale in cui viviamo. “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), Gesù continua ad essere la via al cuore di Dio, la verità con la quale la nostra storia può essere vissuta con integrità umana e spirituale, la vita che dà significato alla nostra vita e al nostro comportamento etico. Gesù é la Via (il metodo, l’odos, il tracciato), la Verità (ortodossia) e la Vita (ortoprassi). Alla tua luce Gesù vediamo la luce.
P. Diego Spadotto, CSCh