“Cresce tra gli adolescenti il numero degli annoiati e indifferenti alla religione”

Nell’accidia sociale e nell’apatia in cui viviamo, gli adolescenti sono diventati poco sensibili ai riti e alle prediche e perfino alle testimonianze. Frutto del crescente analfabetismo religioso e del crollo della partecipazione ad attività della Chiesa.

“Ci piaccia o meno, è questo l’orizzonte valoriale di fondo della società in cui noi chiediamo agli adolescenti, come se fosse la cosa più naturale, di vivere il vangelo e la vita sacramentale, o la donazione al servizio del prossimo. Non sorprende il fatto che molti di loro ci rispondono come fu risposto a Paolo all’Areopago di Atene: “su questo ti sentiremo un altro giorno”.

Indifferenza e superficialità. Che fare? Amarli come sono, con le loro domande, le loro riflessioni talvolta penose, con le loro collere, le loro rivolte contro Dio. Amarli, vuol dire ascoltarli davvero, senza cercare a ogni costo di rispondere a tutto. Una delle cose meno necessarie nel fare discernimento con i giovani è voler far capire “chi sono”, mentre la vera domanda è “per chi sono”? Giustamente, proponiamo loro di pregare. Ma quale preghiera? Il nostro modo di pregare attrae i giovani? Quando eravamo giovani ci dicevano soprattutto che la preghiera era un dovere, un fardello da portare avanti comunitariamente, il che non era molto entusiasmante. La preghiera è “luogo dell’incontro” con Dio? Ha qualcosa di attraente per i giovani il nostro modo di pregare? Proponiamo loro la gioia, ma è quella che noi viviamo? Li vediamo tristi, scontenti, distratti e disinteressati? Proponiamo loro un impegno missionario legato al battesimo. Ma cosa sanno loro del battesimo? È urgente evangelizzare prima di catechizzare e portarli ai sacramenti.

Per alcuni educatori, le teorie, i riti e le formalità contano di più della “povera gioventù dispersa”. Nell’accidia sociale e nell’apatia in cui viviamo, gli adolescenti sono diventati poco sensibili ai riti e alle prediche e perfino alle testimonianze. Frutto del crescente analfabetismo religioso e del crollo della partecipazione ad attività della Chiesa.

Questa situazione ha accentuato la tendenza a interpretare ogni questione esistenziale dei ragazzi con le categorie della psicologia e riducendoli a “oggetti” di studio. Gli adulti sono convinti che gli adolescenti sono ormai soggetti passivi, destinati a rimanere in balia degli eventi, vittime più che protagonisti della loro vita. A dispetto dell’uso che gli adolescenti fanno della tecnologia più avanzata, non hanno perso la capacità di prendere in mano le redini del proprio destino.

Ma gli adulti, sempre più ossessionati dalle apparenze, fanno di tutto per evitare loro anche il rischio più piccolo, spegnendo negli adolescenti quello che da sempre li caratterizzano: rischiare. Abbiamo tolto ai ragazzi la possibilità di fare esperienze, quelle che li rendono persone. Ora non sappiamo quanto tempo ci vorrà perché si riapproprino del tempo perduto.

È un dovere evangelizzare, legato alla nostra missione, come è un dovere per noi “cercare” i ragazzi. Non c’è forza in un vangelo “per sentito dire”, senza  gratuità di mettersi in ascolto prima di insegnare. Al pozzo di Giacobbe, Gesù, incontra una donna samaritana.

Essa poteva aspettarsi da un giudeo solo disprezzo e invece questo sconosciuto si fa mendicante, parla con lei e le chiede dell’acqua. La samaritana ha pregiudizi su quello sconosciuto perché giudeo, Gesù non ha pregiudizi sulla samaritana, né perché tale, né perché donna. Non si può evangelizzare avendo dei pregiudizi sui ragazzi e giovani. Gesù rompe l’interdetto sociale e religioso che separava giudei e samaritani. Incontra le persone perché “ha sete”, desiderio di relazioni, di amare ed essere amato, è vero uomo, non un militante di Dio.

Le esperienze di evangelizzazione con i ragazzi cambiano qualcosa in noi e in loro? Dal dialogo di Gesù con la samaritana possiamo imparare a dialogare con i ragazzi, anche con quelli che sono come la samaritana e non hanno nessuna conoscenza né di religione, né di fede, perché la vita secondo lo Spirito risiede nel quotidiano, nelle realtà che viviamo. Gesù, non le fa una predica ma un invito: “Ah, se tu conoscessi il dono di Dio”.  Se vogliamo introdurre i giovani alla fede dobbiamo dare loro fiducia, aiutarli ad avere fiducia in se stessi e cercare insieme, con intelligenza e creatività, il loro cammino. Quando si incontrano la creatività degli educatori con i “sogni” dei giovani non c’è indifferenza o noia che non possano essere superate.

Quando un ragazzo espelle completamente la religione e la fede dal cerchio della ragione, davanti a temi come Dio, la felicità, il dolore, il dono della propria vita, sta fuggendo dalle relazioni e non ha più il minimo bagaglio per pensare, rischia di finire in balia di frasi fatte o di affermazioni deliranti e di conseguenza finire per aderire a ogni tipo di fanatismo. L’idea secondo la quale “se non parliamo di religione è meglio”, è figlia di una perfetta ingenuità. Mettere la religione e la fede al di fuori della ricerca intelligente e umile, equivale a lasciarla in balia di chi segue l’irrazionalità.

Viene a mancare una chiave interpretativa del reale. La scuola, in questa ricerca creativa, è decisiva ed è decisivo il modo in cui facciamo sentire loro che ci stanno a cuore. I ragazzi non ricorderanno quello che abbiano detto loro, ma come si sono sentiti con noi a scuola. Di qui l’importanza della relazione educativa. Si dice che per lavorare con gli adolescenti bisognerebbe “specializzarsi”. Specializzarsi in ciò che non si è nemmeno capaci di fare nella pratica? La vera specializzazione si fa semplicemente vivendo con i ragazzi, imparando da loro, come hanno fatto San Giuseppe Calasanzio, P. Antonio e P. Marco Cavanis, Don Bosco e tanti altri santi. 

P. Diego Spadotto, CSCh

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