Carlo Acutis è nato a Londra, le sue reliquie si trovano ad Assisi. La vita, Carlo l’ha trascorsa quasi interamente a Milano, in un piccolo triangolo compreso tra la casa, la parrocchia e le scuole che ha frequentato. É morto a 15 anni per una leucemia fulminante, il 27 aprile 2025 sarà proclamato santo durante il Giubileo degli adolescenti.
Le sue radici milanesi affondano nella zona di piazza Tommaseo, dove ancora abitano e lavorano decine di persone che hanno conosciuto Carlo bambino e adolescente. «L’ho presente come se fosse davanti ai miei occhi – racconta suor Miranda Moltedo, che è stata sua maestra alle elementari nell’istituto delle Marcelline –. Era un ragazzino tranquillo e sereno, potrei dire pensoso per il suo carattere riflessivo». Atteggiamenti che apparivano come quelli di un bambino «normale», ma che già tradivano una spiccata sensibilità. A confermarlo è suor Monica Ceroni che è stata docente di Carlo alle scuole medie. «La sua era una di quelle intelligenze dirompenti che non si possono costringere nelle maglie dello studio regolare e, per certi versi, danno fastidio. Ma sono anche le stesse di chi compie nella vita cose straordinarie».
Già tra i 10 e i 13 anni, conferma suor Monica, Carlo iniziava a programmare con il computer. Ma la maggior parte del “lavoro” lo svolgeva a campanella suonata, dopo essere tornato a casa. «Era già in grado di programmare con più linguaggi insieme e leggeva testi universitari di informatica». A spiegarlo è Federico Oldani, uno degli amici con cui Carlo trascorreva decine di pomeriggi in camera a guardare film, ma anche a «parlare di politica e religione». Ora Federico è un ingegnere aerospaziale ma all’epoca – confessa – non riusciva a seguire il passo dell’amico. «Mi aveva prestato i suoi libri, ma non leggevo più di tre pagine in quei testi accademici». Per Carlo, però, l’informatica era solo uno strumento per esprimere la propria fede, agli occhi di chi gli stava vicino. «Mi aveva mostrato il sito dei miracoli eucaristici in fase di sviluppo – continua Oldani – ma con noi rimaneva molto discreto nel parlare di Vangelo perché aveva capito che non eravamo granché credenti. Quindi non faceva proselitismo. Preferiva agire con discrezione».
Poi Federico Oldani racconta una storia che si ripete in molte testimonianze di amici e insegnanti di Carlo. Il protagonista è Andrea Pobbiati, ragazzo di 22 anni ucciso a coltellate nel 2014 ma che nel 2003 era un compagno di classe di Carlo «che si vestiva con una tuta verde ramarro e che veniva bullizzato a scuola». Così, almeno, lo descrive suor Monica Ceroni. Solo Carlo trascorreva le ricreazioni con lui e lo invitava a passare i pomeriggi a casa sua. «Era riuscito a integrarlo come un amico e non come un ragazzo particolare», spiega la maestra. Che, assieme alle altre insegnanti, si è accorta dell’impegno sociale di Carlo solo a distanza di anni dalla sua morte. «Metteva da parte le sue paghette per dare pasti caldi e coperte ai poveri del quartiere – racconta la maestra Valentina Quadrio – ma l’ho scoperto soltanto al suo funerale, quando si sono presentati tutti affollando la chiesa di Santa Maria Segreta».
“Discrezione”, nella Milano in cui ha trascorso l’adolescenza, pare che fosse la parola d’ordine di Carlo. Tanto che neppure ai professori del liceo, il Leone XIII, spiegava quali fossero i suoi impegni extrascolastici. «Mi capitava di sorprenderlo senza che avesse fatto i compiti – racconta la docente di matematica, Maria Capello – e lui mi rispondeva che aveva “altro da fare”. L’ho capito anni dopo in che cosa fosse occupato». E non si trattava solo di carità ma anche di preghiera. Ogni giorno Carlo si fermava in adorazione dell’Eucaristia in Santa Maria Segreta, partecipava alla Messa e recitava il Rosario. Tra i tanti lo testimonia Francesca, una parrocchiana che ha conosciuto Carlo a pochi mesi dalla morte e che lo vedeva in ginocchio, di fronte al tabernacolo, sulle stesse panche dove lei torna adesso a pregare ogni mattina. «Era un ragazzo normale – rivela – ma aveva un volto luminoso, perché aveva incontrato il Signore». (sintesi da un articolo di Avvenire)
“Senza freni” è il titolo di un libro di P. Maurizio Botta. L’autore, non è un teorico ma uno che vive nel “campo” o meglio nella “strada”, come tanti altri educatori, cercando di formare per il nostro tempo, adolescenti e giovani, come “ottimi cittadini e buoni cristiani”. In passato, hanno fatto la stessa cosa P. Antonio e P. Marco Cavanis, educatori nel “campo”. Educare è aiutare gli adolescenti a scoprire che la vita si compie quando si scopre il proprio modo di donarla, affrontando la corrente dominante che vuole gli adolescenti consumatori docili e isolati e con il freno a mano tirato. “Adolescente” come spiega il prof. Alessandro Davenia, è il participio presente del verbo “adolescere”, di cui “adulto” è il participio passato, cioè il risultato di adolescere. L’adolescente chiede agli adulti le chiavi della casa, della vita, per farne un’altra vita, la sua! Chiede le chiavi all’autorità che ha la capacità di far crescere,ma se essa le ha smarrite, allora è il “potere” a offrirle. Il “potere” le offre on line, così quando un adolescente apre un suo profilo, diventa dipendente del “potere”, si lascia vivere, accetta la dittatura del conformismo mediatico, per non essere escluso e messo in ridicolo.
Così, chi non cerca di essere se stesso, unico, originale “morirà fotocopia, insignificante”, diceva Carlo Acutis, perché adeguato al pensiero unico. Gli adulti che si sono giocate le loro possibilità vivono con quel poco che hanno, il resto si è seccato, hanno perso la responsabilità verso se stessi in un’autoesclusione narcisistica, funzionale al cullare un dolce vittimismo. Non hanno rinunciato all’idea di giovinezza che viene venduta quotidianamente, provocando una confusione genetica mostruosa. I media presumono di controllare i sentimenti e i pensieri altrui ma è follia e stoltezza. Carlo ha reso evidente in ogni circostanza il suo disappunto e disgusto, la sua disapprovazione, è stato semplicemente sincero, se stesso. É molto difficile per i nostri giovani vivere nell’attuale società del controllo mediatico. Per tutti loro, scegliere di essere se stessi comporta sempre una rinuncia, un’esclusione, non possono barare. Le scelte che devono fare sono tutt’altro che semplici.
Oggi, quando un ragazzo partecipa alla Messa domenicale perché vuole essere se stesso, sta facendo una cosa straordinaria! Da parte di genitori, educatori, preti, mostrare di non sapere quanto sia difficile per un ragazzo, una ragazza dire di essere credente, rende quasi impossibile ogni forma di accoglienza nei loro confronti. Se non comprendiamo la difficoltà, la vergogna a raccontarlo, allora in un certo senso li escludiamo. Il branco dei teppisti di strada è meno violento del branco mediatico che impone ai ragazzi cosa pensare, come divertirsi, come amare, che impone cosa debba piacere e se non ti piace, sei fuori da tutto. Occorre mostrare il lato bello dell’essere se stessi, liberi, smascherando realmente la violenza del conformismo e delle catalogazioni. Il compito di ogni educatore non è quello di accontentare i ragazzi, ma quello di amarli che è una cosa ben diversa, aiutarli ad essere se stessi, veramente liberi.
Carlo Acutis era “incontrollabile”, nulla lo fermava: né la malattia, né il conformismo, né la morte. Era libero perché liberato da ciò che il controllo non può liberare: il terrore della morte e il timore di non essere amato se non accetti i freni del conformismo. É vissuto ringraziando della vita. L’incapacità di ringraziare conduce alla solitudine, il ringraziare conduce al riconoscere il valore degli altri e il bisogno che tutti hanno di un aiuto solidale. Troppi adolescenti passano tutta la vita così: mai realmente contenti, sempre nella frustrante illusione di cercare continue soddisfazioni, di sembrare quelli che non sono. San Carlo Acutis, ha cercato semplicemente di essere se stesso, ha preferito l’essenzialità, la sobrietà dell’accontentarsi che allontana ogni tristezza rassegnata, e sa gioire della gioia degli altri. La misura della felicità è la riconoscenza. La causa della tristezza e scontentezza che regna nei giovani, è la strutturale ingratitudine presente in loro, generata dell’ingratitudine sociale, machiavellica, retorica, insincera, ingratitudine del “tutto è dovuto” che rende ancora più preziosa la gratitudine vera, assai rara.
P. Diego Spadotto, CSCh