Papa Francesco: il senso più profondo del ministero sacerdotale e della vita consacrata

Preparazione per il Capitolo Generale 2019.

Papa Francesco: il senso più profondo del ministero sacerdotale e della vita consacrata. Orientamenti per la formazione

“Una delle conseguenze di una cattiva formazione al sacerdozio e alla vita consacrata che più mi preoccupa è il clericalismo. Non c’è dubbio che sia una delle perversioni più gravi anche della vita consacrata. In generale è una perversione della vita della Chiesa e per questo bisogna porre molta attenzione a tale aspetto nella vita consacrata e nella formazione dei seminaristi nelle diocesi. È una perversione in quanto perverte quella che è la natura della Chiesa, del santo popolo fedele di Dio” (Francesco).

Ma il Papa è anche convinto che “non c’è bisogno di essere chierici per essere clericali”. Esiste un clericalismo che si manifesta nelle persone che vivono con atteggiamenti da segregati, con la puzza sotto il naso. Sono quelli che vivono una specie di atteggiamento aristocratico rispetto agli altri.

Quando c’è clericalismo, elitarismo, non c’è il popolo di Dio, che è quello, in definitiva, che dà una giusta collocazione. Il religioso clericale non è inserito. “Il clericalismo è l’opposto dell’inserimento ed è la radice di molti problemiAnche dietro ai casi di abusi, oltre che ad altre immaturità e nevrosi, si trova il clericalismo. Occorre fare molta attenzione a questo durante la formazione. Bisogna discernere e aiutare a chiarire le immaturità e ad accompagnare in una sana crescita”.

Il sacerdote è un uomo che coi tempi che corrono offre la sua vita per un ministero unicamente di servizio. La vita del sacerdote é resa incandescente da vicende note (il calo molto sensibile delle vocazioni, gli scandali degli abusi, la inadeguatezza di certe strutture formate quando la vita era molto diversa) e non ci si può sottrarre da tanti interrogativi. Per chi non ha fede il prete è oggi la figura più ‘assurda’ della società.  

Migliaia di anni e di luoghi comuni, ma anche migliaia di casi di esperienza viva di santità, di generosità, e di vicinanza alle persone caratterizzano questo strano essere, per il quale un santo rivoluzionario come san Francesco aveva la più grande ammirazione e rispetto. Bisogna, però, stare in guardia da eccessi di narcisismo, protagonismo, clericalismo che avvelenano la testimonianza dei preti, e risaltare la natura profonda della relazione di amore che lega il sacerdote a Dio, a Gesù, e al popolo.

In questo affondo stanno le regioni più misteriose e sacre del sacerdote. Da un lato, il prete é sempre più pastore, autorevole per carità più che per ruolo, accompagnando nel discernimento le persone di oggi, dall’altro, mai staccare un attimo gli occhi da questo abisso, da questa vocazione a un legame drammatico. «Il prete» «è innanzitutto uno che si lascia amare da Dio e dagli uomini». 

Oggi nella nostra cultura e società il tema della vocazione appare oscurato. Come se si potesse intendere la vita al di fuori di una chiamata. Infiniti sono intorno a noi i modi con cui le persone si arrabattano per capire chi essere e come dare un senso alla propria vita. Molte figure si sono sostituite al prete accompagnando tale ricerca, dagli psicoterapeuti ai coach ai cercatori di talenti, segno che il problema esiste.

Il prete, invece, con la sua sola esistenza, indica una cosa vertiginosa. Una cosa “fuori luogo”. Ci sono chiamate speciali, come quella dei sacerdoti, dei monaci, o degli artisti o degli eroi, o sopra a tutti dei santi, che mostrano a tutti che esiste una vocazione, una voce che ci parla per segni su come indirizzare la nostra vita. A questi segni occorre prestare attenzione, e fiducia, più che alle proprie congetture. 

Il prete vive e mostra innanzitutto questa vertigine a tutti: Dio chiama, non tace, chiama la vita di tutti a essere qualcosa di bello e di vero per il mondo. Qualsiasi sforzo di essere se stessi, e anche di essere buoni preti, sarebbe vano senza l’ascolto di tale vocazione, di tale voce che presente in molti modi chiama la nostra vita. Forse occorre ripartire da lì, da quella vertigine.

Quattro pilastri su cui edificare la vita

  1. Preghiera. Chi ama sente il bisogno di rimanere cuore a cuore con la persona amata. Il linguaggio degli innamorati è unico, irripetibile, personale. Vale per quella coppia non per le altre. Quando si è soli, si comunica con la parola e col silenzio; con gli occhi, i gesti. Chi consacra la sua vita a Dio lo fa perché di Dio si è perdutamente innamorato e sente il bisogno di rimanere solo con lui. Hanno da dirsi cose che gli altri potranno solo immaginare. Pregare per un consacrato non è facoltativo, ma più necessario del respiro. La preghiera dilata il cuore, purifica le intenzioni, allarga gli orizzonti. Dona forza, alimenta la speranza. La preghiera ti fa sentire piccolo e grande allo stesso tempo, un figlio debole che si rispecchia in un Padre misericordioso e giusto.
     
  2. Vita comunitaria. Dopo il tempo del silenzio e della solitudine viene quello dello stare insieme ai fratelli ai quali doni quello che hai ricevuto. Dai quali attingi il frutto della loro fede e delle loro fatiche. Non provare imbarazzo a dire a chi ti sta accanto:« Ho bisogno di te, fratello, dei tuoi consigli, della tua sapienza, del tuo conforto». Non siamo lavoratori autonomi, non prestiamo servizio per una multinazionale, siamo missionari che, liberamente, hanno accolto l’invito di portare al mondo un Dio che non si vede. Prima di accogliere un messaggio, giustamente, la gente chiede: che garanzie mi date? «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» ci raccomandò Gesù. Nessuna fuga in avanti, dunque, nessuna nostalgia di un passato ormai passato, nessuna tentazione di dividere ciò che Dio ha unito, ma un continuo vigilare per rimanere attaccati a Lui e alla Chiesa come i tralci alla vite. Abbiamo bisogno di rimanere insieme, per condividere le gioie e i dolori, le sconfitte e i successi; per prendere sulle nostre spalle il peso del fratello anziano, malato o troppo giovane per camminare da solo e non smarrirsi. “Ti prego, fratello, stammi accanto quando la mia vita arranca. Quando il cielo si chiude e Dio si mette a giocare a nascondino. Ricordami che proprio in quei giorni mi è più vicino di quando, felice, correvo a perdifiato. Ripetimi ancora che “se il chicco non muore il grano non cresce”».
     
  3. Studio. Oggi è tanto necessario trovare il tempo per fermarsi, riprendere i libri e mettersi a studiare. Non per uno sterile e vanitoso amore del sapere, ma per meglio servire i fratelli che Gesù mette sul nostro cammino. Sono tanti, ognuno porta i suoi problemi, i suoi dolori, la sua fede. Occorre essere capaci di comprendere chi ci sta davanti per meglio aiutarlo, perché faccia ritorno a casa più leggero, perché si senta perdonato e amato dal Signore. Studiare per rispondere alle sfide del tempo presente. Lo studio ci fa crescere, ci rende umili. Studiare vuol dire ammettere che abbiamo ancora tanto da imparare per poter arrivare a dire: so di non sapere. Studiare, quindi, per meglio servire. Studio perché amo.
     
  4. Apostolato. Raccontare agli altri le grandi cose che Dio ha fatto e va facendo in te ti riempie di gioia. Puoi farlo con la voce, con gli scritti, con il canto, con la musica, con le opere. Lo fai con la preghiera, la Messa, lo studio, correndo da chi ha bisogno. Apostolo, cioè mandato. Non vai a nome tuo, ma a nome della Chiesa che a sua volta è stata inviata da Gesù. Non sei una monade, ma una goccia nel fiume vivo che da duemila anni scorre verso il Mare. La tua santità fa più bella la sposa di Cristo, il mio peccato la sporca, la insozza. La tua fedeltà attira gli uomini a Cristo, il mio egoismo li allontana. Con mia grande responsabilità. Chissà se nella tua vita di prete, di frate, passerai inosservato o sarai conosciuto. Ma che importa? «Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome da gloria». Io non so suonare né so cantare ma ringrazio Dio per i fratelli che lodano il Signore con la musica e il canto. Siamo un corpo solo, quello che è mio è tuo; quello che è nostro è di tutti.

Orientamenti di Papa Francesco per la formazione sacerdotale e religiosa

“Quando vi sono candidati con nevrosi e squilibri forti, difficili da poter incanalare anche con l’aiuto terapeutico, non li si deve accettare né al sacerdozio né alla vita consacrata. Bisogna aiutarli perché facciano altri percorsi, senza abbandonarli. Occorre orientarli, ma non li dobbiamo ammettere. Ricordiamo sempre che sono persone che vivranno al servizio della Chiesa, della comunità cristiana, del popolo di Dio. Dobbiamo fare attenzione a che siano psicologicamente e affettivamente sani”.

Alla domanda: “Non è un segreto che nella vita consacrata e nel clero vi sono anche persone con tendenze omosessuali. Che dire su questo? Papa Francesco risponde: “È qualcosa che mi preoccupa, perché forse a un certo punto non è stato affrontato bene. Sempre sulla linea di quello che stavamo dicendo, ti direi che nella formazione dobbiamo curare molto la maturità umana e affettiva. Dobbiamo discernere con serietà e ascoltare anche la voce dell’esperienza che ha la Chiesa. Quando non si cura il discernimento in tutto questo, i problemi crescono. Come dicevo prima, càpita che forse al momento non siano evidenti, ma si manifestano in seguito. 

Quella dell’omosessualità è una questione molto seria, che occorre discernere adeguatamente fin dall’inizio con i candidati, se è il caso. Dobbiamo essere esigenti. Nelle nostre società sembra addirittura che l’omosessualità sia di moda e questa mentalità, in qualche modo, influisce anche sulla vita della Chiesa.

È una realtà che non possiamo negare. Neanche nella vita consacrata sono mancati dei casi. Un religioso mi raccontava che, mentre era in visita canonica a una delle province della sua congregazione, era rimasto sorpreso. Vedeva che bravi giovani studenti e anche alcuni religiosi già professi erano gay. Egli stesso aveva dubbi sulla cosa e mi ha domandato se in questo vi era qualcosa di male. «In definitiva – diceva – non è tanto grave; è soltanto un’espressione di affetto». 

È un errore. Non è soltanto un’espressione di affetto. Nella vita consacrata e in quella sacerdotale non c’è posto per questo tipo di affetti. 

Per questa ragione, la Chiesa raccomanda che le persone con questa tendenza radicata non siano accettate al ministero né alla vita consacrata. I sacerdoti, i religiosi/e omosessuali vanno spinti a vivere integralmente il celibato e a essere perfettamente responsabili, cercando di non creare mai scandalo nelle proprie comunità né nel santo popolo fedele di Dio vivendo una doppia vita. È meglio che lascino il ministero o la vita consacrata piuttosto che vivano una doppia vita.

Riferendoci ora alla formazione permanente, nella Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica sembra di percepire una certa preoccupazione per casi di religiosi e religiose già professi, che abbandonano la vita consacrata o il ministero. Come sostenere la formazione permanente?

Torno ai quattro pilastri: preghiera, vita comunitaria, studio e apostolato. Vanno sostenuti in queste quattro dimensioni, sempre accompagnati. Il religioso/a deve cercare di camminare con il compagno/a di cammino più anziano, con più esperienza. La compagnia è necessaria. È necessario chiedere anche la grazia di saper accompagnare, ascoltare. 

Nella vita consacrata, uno dei problemi maggiori nel quale si imbatte un superiore/a provinciale è vedere che un fratello o una sorella cammina da solo. Nessuno lo accompagna?  Non si può crescere nella vita consacrata né essere formato, senza una persona che ti accompagni. Si deve fare in modo che nessun religioso o religiosa cammini da solo. Questo, evidentemente, non si improvvisa.

È un’abitudine che va presa fin dal noviziato per abituarsi a questo. Se uno non ha una compagnia buona, finisce per trovarne una cattiva.

Una persona consacrata deve ricercare e accettare una compagnia che gli faccia da contrasto, che sappia ascoltare. Forse non è facile incontrare la persona ideale, ma esiste sempre qualcuno che possa fare un po’ da «fratello maggiore», con cui poter parlare e confidarsi.

P. Diego Spadotto, CSCh

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