Troppo spesso, nella “propaganda vocazionale”, i religiosi invece di parlare del carisma e dalla gioia del Vangelo, mostrano strutture enormi e i vantaggi e le sistemazioni di cui godranno quelli che chiedono di entrare in una congregazione. Ma è questo che attira i giovani o è la preghiera e la vita sobria e santa delle persone che formano la Congregazione? Qualunque vocazione che non si fondi su una fede umile e su un’alleanza sincera e libera con Gesù, è destinata a fallire. E’ nell’amore di Cristo e nel cercare insieme che si trova il senso della vita religiosa e un significato al vivere.
Papa Francesco, sta facendo camminare la Chiesa (e la vita consacrata) in modo più coerente alla sua vocazione. L’Evangelii gaudium parte da un principio chiaro: la Chiesa è chiamata ad “uscire” per annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi e in tutte le occasioni, con tanta gioia, senza ritardi e senza paure. Si tratta di mettersi in una situazione di “uscita”, di andare oltre, di stare lì dove si gioca tutto: la politica, l’economia, l’educazione, la famiglia. “Uscire” verso tutte le periferie del mondo. La Chiesa vive nel mondo e in dialogo con esso. Il Signore Gesù ha voluto la Chiesa come sacramento della sua presenza di risorto nella storia e continua a “precederla nell’amore”.
In questo contesto la Chiesa (e la vita consacrata) è chiamata a prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare e far fruttificare. Sono i verbi della spiritualità dell’esodo che permette di cercare in ogni momento i segni, molte volte nascosti, della presenza del Signore nella storia e di assumere l’audacia e la creatività come compagne di cammino. Ci si può chiedere: verso quali periferie andare? Non si può dare una risposta precisa a questa domanda. L’ ”uscire” passa dal lasciarsi interpellare dalla realtà, dal mettere in atto processi di discernimento per capire dove e come andare. Certamente è necessario organizzare l’“uscita”, darle un senso, un orientamento ma non si può rimandare sine die. Chi esce può sbagliare, ma chi non esce certamente ha già sbagliato. Nell’“uscita” si assume il rischio della provvisorietà e dell’urgenza, dell’incertezza del momento e del cammino.
In definitiva, l’”uscita” comporta fede nella gioia del Vangelo, essere profeti di speranza in ogni circostanza, ricordando che «una sequela triste è una triste sequela» e che è possibile ”perfetta letizia” anche in mezzo alle difficoltà della vita, le delusioni, le malattie e il declino delle forze dovuto alla vecchiaia. La gioia propria del cristiano e del consacrato, è anzitutto una disposizione interiore, consiste nella vita nascosta in Dio come afferma il nostro P. Antonio Cavanis.
Forse, quando Papa Francesco parlava della Gioia del Vangelo, pensava a ciò che Paolo VI definiva come «la dolce e confortante gioia d’evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime» (Evangelii nuntiandi, 75). Questa gioia nasce dalla vicinanza di Gesù, dall’incontro con lui, dall’accoglienza del Vangelo, non è allegria di vetrina. La vera gioia cresce nella misura in cui ai accoglie e la si condivide. Diffonderla, condividerla è missionarietà, «ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono» (EG, 21).
Per Francesco la gioia non è una questione di immagine, è contenuto e forma dell’annuncio, è costitutiva della fede e per un consacrato non è una possibilità, ma una responsabilità, una grande responsabilità. Non possiamo privare il mondo della gioia di essere stati chiamati dal Signore ad essere profeti della gioia.
La gioia è un modo straordinario di seminare speranza, è testimonianza di una vita piena, beata: è come il vertice dell’esistenza, una sensazione di pienezza nella quale la vita appare in tutta la sua positività, come colma di senso e meritevole di essere vissuta. Testimonianza di una vita che trova nella sequela di Gesù il suo senso. La gioia che Gesù ci dona, la sua gioia, trasforma la nostra vita consacrata in profezia e forza di conversione per costruire il Regno di Dio.
P. Diego Spadotto, CSCh