Quali utili insegnamenti dalla G.M.G. di Lisbona?

Il nostro futuro solo può essere con i giovani e mai senza di loro, non pieno di noi stessi ma di quello per cui siamo stati scelti dal Signore: la missione educativa.

Giovani da tutto il mondo, per una Chiesa aperta a tutti, proprio a tutti, testimoniano che il Regno di Dio non cresce accanto al mondo o contro il mondo, ma dentro il mondo. É l’insegnamento di Gesù.

Papa Francesco e i giovani della G.M.G. ci aiutano a pensare concretamente al futuro della Congregazione fidandoci di Dio e cambiando “le paure in sogni”. Il nostro futuro solo può essere con i giovani e mai senza di loro, non pieno di noi stessi ma di quello per cui siamo stati scelti dal Signore: la missione educativa.

I giovani aiutano a capire che non è “religiosa” la vita incasellata in codice di procedura penale o in un moderno galateo, immagine di Congregazione difficile da morire. Non siamo “buoni religiosi” se non ci lanciano in un cammino di conversione e non “guardiamo il mondo con gli occhi dei giovani”. Per loro, “Dio non è un taccagno senza cuore, ha un unico intento far felici i suoi figli, non bada a spese, paga tutto Lui con amore e misericordia, basta continuare a seminare piccoli semi di regno di Dio”. Non c’è nulla di più pericoloso che proteggere la propria vita religiosa con un baluardo di mediocrità, di giustificazioni da “sistemati”.

“Il mondo ha bisogno di santi che abbiano del genio come in una città in cui ci sia la peste ha bisogno di medici” (Simone Weil). Grazie anche a umili consacrati che i giovani continuano a sperare. 

Una vita religiosa, fatta solo di “buoni sentimenti”, fa scappare i giovani di buon senso, essi non possono accettare che la vita dei consacrati sia senza fedeltà alla loro missione specifica e crei “cristiani non praticanti” che, a loro volta, creano i “non più cristiani”.

Ai religiosi educatori della gioventù, la G.M.G ha insegnato che la vita religiosa non deve aver paura di coloro che non la capiscono, la deridono o la ritengono superata, ma deve prendere coscienza che il nemico è la non credibilità dei religiosi stessi.

La santità dei religiosi non si gioca in un mondo parallelo, ma in mondo reale, popolato di giovani reali, che portano in se stessi i limiti legati alla crisi della famiglia e all’assenza di valori credibili nella società. Sembra che i religiosi non vogliono più lasciarsi santificare dallo Spirito che affida loro la cura della gioventù, sono dimissionari dalla santità.

Il detto “non sono un santo” è il lamento tiepido e fiacco di quella depressione che preferisce la tristezza alla lotta, la mediocrità al coraggio, la mondanità allo slancio generoso, sono “religiosi piagnucolosi”, contenti di rimanere chiusi nelle piccole abitudini di un miope egoismo.

 “Esaminate voi stessi, se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?” (2Cor 13, 5). “Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato” (Eb 12, 4). Sappiamo di essere poveri e deboli. La grazia da invocare sarebbe quella di ritornare all’essenziale della vocazione “cercare la propria e altrui santificazione” e amare la gioventù con l’amore e lo spirito di sacrificio di P. Antonio, P. Marco e di P. Basilio. Una volontà insicura e una motivazione debole non bastano per “eccitare e accendere sempre più una particolare tenerezza verso la gioventù, a ciò spinta dal gusto che si dà a Dio, che la ama con affetto distinto e dal gran bene che si fa ad essa”.

L’amore si misura proprio sulla donazione personale, in un’ottica di sacrificio. Se mancano queste dimensioni, l’amore finisce per essere confuso con la pura gratificazione e ci si limita a gestire solo problemi di sopravvivenza delle opere.

La Congregazione, però, non esiste per questo ma per la sua Missione. Altrimenti ci si illude, illudiamo gli altri, e formiamo persone che cercano solo di “piacere a se stessi”. Se noi religiosi educatori perdiamo il sapore, i giovani sono costretti a cercare altrove: “Se il sale perde sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente”.

Grazie a Dio, ci sono Cavanis che non hanno mai perso la capacità di essere sale con “sapore che dona sapore”, che hanno avversione a ogni forma di vita religiosa incoerente e piena di parole vuote sui giovani, senza mai un tempo di ascolto e un’umile parola di prossimità con i giovani e con quegli educatori “veramente padri” che ogni giorno affrontano innumerevoli sfide per “stare” con loro. 

P. Diego Spadotto, CSCh

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