…una serie di problemi che interessano tutti…

Papa Francesco in dialogo con i gesuiti di Mozambico e Madagascar.

Formazione.
Formazione.

Nel recente viaggio in Africa papa Francesco, in dialogo con un gruppo di confratelli gesuiti, ha affrontato una serie di problemi che interessano tutti i religiosi, specialmente quelli che evangelizzano in Africa. Interessano moltissimo anche a noi da pochi anni presenti in Africa. Ecco alcuni suoi orientamenti:

  1. Non è facile ricostruire una società divisa. A volte, l’ottimo è nemico del bene, e in un momento di riconciliazione vanno inghiottiti molti rospi. In questo processo, si deve insegnare ad avere pazienza. Serve la pazienza del discernimento per andare all’essenziale e mettere da parte l’accidentale. Poi, però, serve anche insegnare la dottrina sociale della Chiesa. I religiosi non devono dividere. C’è bisogno di riconciliazione nella società: unire, avere pazienza, aspettare. Mai fare un passo per dividere. Noi siamo uomini del tutto, non della parte. Gli Esercizi spirituali aiutano molto in questo contesto. Si possono dare Esercizi a persone impegnate nei diversi settori della società e così renderle più adatte a svolgere il loro compito per unire e riconciliare. Si tratta dell’esperienza del discernimento spirituale che guida all’azione.
     
  2. Il proselitismo non è cristiano, evangelizzazione sì, proselitismo no. L’evangelizzazione libera! Il proselitismo, invece, fa perdere la libertà. Il proselitismo è incapace di creare un percorso religioso in libertà. Prevede sempre gente in un modo o nell’altro assoggettata. Nell’evangelizzazione il protagonista è Dio, nel proselitismo è l’io. Certo, ci sono tante forme di proselitismo. San Francesco ha detto ai suoi frati: «Andate nel mondo, evangelizzate. E, se necessario, anche con le parole». L’evangelizzazione è essenzialmente testimonianza. Il proselitismo è convincente, ma ti toglie la libertà. Benedetto XVI ad Aparecida ha detto una cosa meravigliosa, che la Chiesa non cresce per proselitismo; cresce per attrazione, l’attrazione della testimonianza. Le sètte, invece, facendo proseliti, separano le persone, promettono loro tanti vantaggi e poi le abbandonano a loro stesse. Leggete l’Evangelii nuntiandi di san Paolo VI. La vocazione della Chiesa è quella di evangelizzare. L’identità della Chiesa è evangelizzare. Anche all’interno della Chiesa cattolica ci sono gruppi fondamentalisti. Sottolineano il proselitismo più che l’evangelizzazione. L’evangelizzatore non viola mai la coscienza: annuncia, semina e aiuta a crescere. Aiuta. Chiunque faccia proselitismo, viola la coscienza delle persone: non le fa libere, le fa dipendere, ti dà una dipendenza servile, di coscienza, e sociale. Il proselito invece dipende non come un figlio, ma come uno schiavo, che alla fine non sa che cosa fare. La dipendenza dell’evangelizzato, quella «paterna», è il ricordo della grazia che Dio ti ha dato. L’evangelizzazione ti dà un legame «paterno», cioè ti fa crescere e ti libera.
     
  3. Il clericalismo è una vera perversione nella Chiesa. Il pastore ha la capacità di andare davanti al gregge per indicare la via, stare in mezzo al gregge per vedere cosa succede al suo interno, e anche stare dietro al gregge per assicurarsi che nessuno sia lasciato indietro. Il clericalismo invece pretende che il pastore stia sempre davanti, stabilisce una rotta, e punisce con la scomunica chi si allontana dal gregge. Insomma: è proprio l’opposto di quello che ha fatto Gesù. Il clericalismo condanna, separa, frusta, disprezza il popolo di Dio. Il clericalismo confonde il «servizio» presbiterale con la «potenza» presbiterale. Il clericalismo è ascesa e dominio, ha come diretta conseguenza la rigidità, la fissazione morale esclusiva sul sesto comandamento. Invece i peccati più gravi sono quelli che hanno una maggiore «angelicità»: orgoglio, arroganza, dominio che aprono la strada all’ingiustizia sociale, alla calunnia, alle menzogne. I grandi pastori sanno condurre il gregge senza asservirlo a regole che lo mortificano. Il clericalismo invece porta all’ipocrisia. Anche nella vita religiosa.
     
  4. La xenofobia e l’aporofobia oggi sono parte di una mentalità populista che non lascia sovranità ai popoli. La xenofobia distrugge l’unità di un popolo, anche quella del popolo di Dio. E il popolo siamo tutti noi: quelli che sono nati in un medesimo Paese, non importa che abbiano radici in un altro luogo o siano di etnie differenti. Oggi siamo tentati da una forma di sociologia sterilizzata. Sembra che si consideri un Paese come se fosse una sala operatoria, dove tutto è sterilizzato: la mia razza, la mia famiglia, la mia cultura… Si vuole bloccare quel processo così importante che dà vita ai popoli e che è il meticciato. Mescolare ti fa crescere, ti dà nuova vita. Sviluppa incroci, mutazioni e conferisce originalità. Il meticciato è quello che abbiamo sperimentato, ad esempio, in America Latina. Da noi c’è tutto: lo spagnolo e l’indio, il missionario e il conquistatore, la stirpe spagnola e il meticciato. Costruire muri significa condannarsi a morte. Non possiamo vivere asfissiati da una cultura da sala operatoria, asettica. La xenofobia  è un’avversione generica verso gli stranieri, ciò che è straniero, o che viene percepito come tale. L’aporofobia è una fobia che rappresenta la paura per la povertà o per i poveri, e può essere anche interpretata come la ripugnanza davanti al povero o all’indifeso.
     
  5. I nostri popoli devono stare attenti a non cadere nella colonizzazione ideologica che ci toglie l’identità, essi hanno ancora la capacità di esprimersi in maniera popolare senza scadere nel populismo. È importante conservare l’identità del proprio popolo, una identità che viene dall’espressione spontanea del popolo. Dobbiamo invece difenderci da una identità che sia ideologica. L’esperienza del popolo va ben oltre le ideologie, che sono astratte, da museo o da laboratorio. L’ideologia ci fa perdere l’identità. L’identità di un popolo non la si può esprimere in concetti, ma in storie, nelle proprie espressioni di arte, cultura, saggezza. Le scelte e il modo di agire dipendono sempre dal contesto, dalla realtà «secondo i luoghi, i tempi e le persone». Il criterio dell’azione non è mai astratto, ma ha come riferimento un certo luogo, un certo tempo, persone precise. La visione interiore non si impone sulla storia cercando di organizzarla, ma dialoga con la realtà, si inserisce nella storia, si svolge nel tempo. Questo fa sì che sia il discernimento a guidare l’azione, rispettando sempre la varietà delle culture, dei popoli, dell’interiorità delle persone. La regola di azione nelle missioni ha sempre tenuto conto della concretezza dei luoghi, dei tempi e delle persone. La regola è questo discernimento.
     
  6. In Mozambico (dove siamo presenti anche noi Cavanis)  i gesuiti lavorano in sei parrocchie: una nell’arcidiocesi di Maputo, una nell’arcidiocesi di Beira e quattro nella diocesi di Tete. In Zimbabwe gestiscono nove parrocchie. L’attività principale della Provincia è legata all’apostolato educativo: i gesuiti lavorano in 18 scuole elementari e superiori. Si tratta per lo più di scuole che la Compagnia gestisce per conto dei rispettivi vescovi e in collaborazione con i governi. La Provincia possiede cinque di queste scuole. Sono anche attivi un centro sociale, due centri di spiritualità e due progetti per la cura degli orfani e un progetto per la riabilitazione dei ragazzi di strada. Un ampio processo di ascolto e di discernimento ha permesso di presentare al Santo Padre quattro preferenze apostoliche universali, che sono le seguenti: 1) Indicare il cammino verso Dio mediante gli Esercizi spirituali e il discernimento. 2) Camminare insieme ai poveri, agli esclusi del mondo, feriti nella propria dignità, in una missione di riconciliazione e di giustizia. 3) Accompagnare i giovani nella creazione di un futuro di speranza. 4) Collaborare nella cura della «casa comune».

P. Diego Spadotto, CSCh

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